martedì 7 giugno 2016

Il "misto" di Gigli nella testimonianza di Lauri Volpi - di Mattia Peli

Il "misto" di Gigli nella testimonianza di Lauri Volpi

Cari lettori, oggi vi regaliamo una significativa testimonianza del grande Tenore Giacomo Lauri - Volpi che racconta come testimone diretto di quale splendore vocale fu capace Gigli nella sua intelligentissima ed accurata gestione della voce tenorile.

Buona lettura e un caro saluto dal Centro Internazionale di Studi per il Belcanto Italiano di Recanati, intitolato proprio a Beniamino e Rina Gigli, che ho l'onore di presiedere

M° Mattia Peli

<<Al Metropolitan alternavo il lavoro con altri elementi della mia corda. In un Teatro, dove il coro italiano cantava, oltre che nella propria lingua, in inglese, in francese e in tedesco, partecipando a dieci rappresentazioni settimanali di opere diverse, gli artisti delle varie classi vocali eran numerosi.

Fra i tenori eccellevano Martinelli, Gigli, Chamlee, Tokatyan, Melchior, Jagel e Laubenthal con vari repertori (...) Gigli superò se stesso nella "Marta", opera che Flotow sembra abbia scritta per lui. Andai ad udirlo in una giornata bianchissima di neve, trionfatrice del pulviscolo nero vomitato dagli infiniti comignoli. I clamori del traffico giungevano smorzati, quasi spenti, scivolando i veicoli silenziosi sulla coltre soffice.


La recita vespertina del classico sabato teatrale newyorchese aveva richiamato gran folla. Gigli cantò con leggerezza di voce, facilità d'emissioni e castigatezza di stile tutta la sua parte e non tentò, seguendo predilezioni invalse nel canto dozzinale d'innumerevoli mediocrità, le effusioni lagrimogene dei centri rigonfi a completo detrimento dei suoi acuti.

 

Il piano di Caruso, che alcuni vogliono imitare, scaturiva dall'anima nel suono, libero da singhiozzi, e permeava l'intera gamma vocale, dal "do basso" al "si naturale" acuto, perfetta di colore, di calore, di ampiezza e di omogeneità. Gigli nella "Marta" trovò il misto, che è ammesso anche dai classici del canto, non come sistema ma per eccezione in determinate esigenze di espressione cromatica.

Il misto è affine alla mezza-voce e alla voce, non mutando il colore dei suoni per quanto alleggeriti e smorzati. Il falsetto, di cui abusa la scuola francese, è invece un'altra voce nella voce, specie quando il tenore l'adopera nella regione acuta, in cui assume la tonalità tipica dei suoni femminili. Il tenore, in altri termini, per una metamorfosi strabiliante, si trasforma in soprano; il maschio diventa femmina.

Il Coro della Cappella Sistina, non permettendo la Chiesa l'inclusione di soprani donne nella falange polifonica del canto sacro, accettò in altri tempi la collaborazione di cantori evirati per le parti di soprano e mezzo soprano, ma affidò sempre ai tenori, dal tipico timbro chiaro e brillante, le parti relative, in modo da ottenere l'impasto dei timbri e dei colori nelle esecuzioni sacre. Tale plastica dei varii suoni non si potrebbe, a fil di logica, conseguire, se i tenori cantassero in falsetto nei complessi vocali, che per l'intonazione mistica dei brani e la religiosità del luogo potrebbero anche tollerarlo. Chi potrà indulgere a una tecnica di canto, basata sul "falsetto" come agevole metodo di ipotetico risparmio nell'economia dei suoni, in pieno campo melodrammatico, in cui il canto è "pathos" lirico, è azione cantata? (...)

Tornando al misto, Gigli nella "Marta" seppe astenersi dai suoni equivoci e dare la esatta misura del suo valore di cantante esperto. Lo udii, poi, nell' "Elisir d'amore". La melodia donizettiana domanda stile castigato, corretto, nobile né più, né meno che il "Don Giovanni" di Mozart.

La "vis comica" scaturisce dalla situazione, non dalla puerilità grottesca dell'attitudine scenica, specie se Nemorino non può ostentare un aspetto avvenente. La voce deve cantare come uno strumento docile nelle mani di un virtuoso.

Schipa, da me udito al vecchio Costanzi di Roma, oggi Teatro Reale, non sortì dalla natura un organo dalle ampie risonanze e dai suoni preziosi. Cionondimeno, creò un Nemorino musicale, armonioso, stilistico entro la linea di un'interpretazione scenica sobria e convincente, che lo rese famoso in tutte le platee del mondo. (...) Nemorino non è un istrione; è una povera anima incompresa, una umile natura inquieta, sospettosa insieme e credula nella sua ingenuità di villano timoroso e timido. Gigli nel confronto delle due edizioni di "Elisir d'amore" guadagnò per bellezza ed armoniosità di voce (...)

Comunque ambedue le edizioni mi fecero ammirare le virtù degli artisti italianissimi, che seguirono le tradizioni del "bel canto" nel senso migliore della parola, vale a dire nel concetto di elevata compostezza lineare e di sincerità emotiva in cui il virtuosismo non tradisce l'espressione del pensiero.>>

[da: G.Lauri Volpi - "L'equivoco", 1938]

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